L’autore ha scritto in precedenza varie cose di ambientazione palermitana, non eccessivamente “seriose”, leggibili anche grazie all’ambizione modesta che avevano. Qui invece l’ambizione è tanta, con un romanzo che vorrebbe avere, nella trama e nell’ambientazione, risvolti psicologici e “sociologici” profondi. Peccato che un tale progetto ambizioso non risulti essere all’altezza delle capacità anche sia solo tecniche dell’autore. Quello che vorrebbe essere un romanzo ambizioso, e che ha, almeno nelle parti iniziali dei momenti di qualità, scade rapidamente in una sorta di romanzo d’appendice, in cui la credibilità della trama e dei dialoghi diventa assolutamente secondaria, come del resto è convenzione accettata ad esempio in una telenovela.

A rischio di rovinare la “sorpresa” al lettore che leggesse prima questa recensione (anche se la trama è così prevedibile che il rischio è molto ridotto), la plausibilità che qualcuno venga arrestato e trattenuto in carcere in un altro paese, sulla base di una testimonianza priva di riscontri oggettivi, prodotta da un pentito di terz’ordine, è molto molto piccola. L’autore non sembra però interessato ad una trama plausibile, quanto a creare “emozioni ad effetto”, scopo al quale la realtà viene piegata senza esitazione. I dialoghi soffrono della stessa uniformità priva di spessore psicologico, di nuovo come degli attori di telenovela che parlano tutti con la stessa intonazione e usando la stessa lingua, i personaggi di “Carne mia” non sembrano (con rare eccezioni nella prima parte, in particolare nella voce della madre del protagonista) parlare con una voce, uno spessore psicologico individuale.

Alcuni stratagemmi narrativi sono efficaci, e denotano uno sforzo da parte dell’autore di creare un romanzo “di qualità”. Ad esempio l’uso di parentesi per indicare il non detto nei dialoghi, l’implicato, è interessante. Così come lo sono i capitoli che fanno da collante, in cui l’autore, con una sequenza di frasi nello stile “Tizio che fa questo. Caio che va lì. Sempronio che fa quest’altro” dà il senso del tempo trascorso fra un capitolo chiave e l’altro.

Nel complesso però questo sforzo è insufficiente a rendere credibile un romanzo di spessore, e il risultato è, sfortunatamente, alquanto mediocre.