La nascita del socialismo craxiano è senza dubbio stata in Italia l'inizio della parabola discendente in cui il paese sta ancora vivendo; l'inizio del momento in cui il disprezzo delle regole ha iniziato ad essere ostentato, in cui la corruzione ha iniziato ad essere esibita, in cui il paese ha ricominciato a lasciarsi affascinare dall'uomo forte e decisionista, per cui le regole non valevano. Un vecchio vizio nazionale, che sembra ritornare periodicamente. Non che prima andasse tutto bene, ovviamente, ma l'Italia della guerra fredda funzionava sulla base di certi compromessi non scritti che garantivano equilibri di potere e in cui una certa sobrietà era regola che valeva per tutti, indipendentemente dal coloro politico e tutto sommato anche dall'onestà e quindi dal livello di corruzione.

Uno dei primi laboratori del craxismo furono le giunte rosse milanesi, in cui un sindaco socialista dirigeva una giunta in cui erano presenti socialisti e comunisti. Per i comunisti era un dilemma diabolico: i socialisti erano "compagni", ma per Craxi il PCI era un avversario e non un alleato. E, nella loro partecipazione alle giunte rosse milanesi, i comunisti erano lacerati, sia come gruppo che come individui, da un lato attratti dall'opportunità politica, dall'altro scandalizzati e turbati dai comportamenti edonistici quando non amorali dei socialisti, che sconvolgevano i puritani (o forse bacchettoni) quadri e dirigenti del PCI.

"La confusione morale" narra dell'indagine condotta da parte di un funzionario del PCI sull'omicidio di un politicante di bassa forza iscritto al partito, che quindi rischiava di riflettersi sull'immagine del partito stesso. In realtà l'indagine in questione è una scusa (neanche tanto velata) per l'autore per descrivere il clima di quegli anni critici per la storia della repubblica. È una descrizione attraverso gli occhi di chi vi era immerso, che potrebbe essere molto interessante, se non fosse per l'incapacità dell'autore di prescindere dai dettagli. I dettagli certamente sono essenziali in un'opera narrativa per creare un'atmosfera, per fare immergere il lettore nell'ambiente in cui si svolgono i fatti.

Il problema è che l'autore sembra ossessionato dai dettagli: una lista dettagliata di pizzerie milanesi, con una discussione delle specialità di ciascuna (p. 324) sembra sinceramente eccessiva (liddove nulla aggiunge alla narrazione), così come una lista dettagliata della aree industriali in via di dismissione che il protagonista incontra in uno dei suoi spostamenti. Del resto, ci vengono anche descritti in dettaglio il percorso di ciascuno dei mezzi pubblici di cui il protagonista si serve nei suoi spostamenti...

Altro elemento incomprensibile, nonché irritante per il sottoscritto, è l'uso di nomi inventati per descrivere realtà riconoscibilissime dell'Italia dell'epoca. Gli Agnelli proprietari della Fiat diventano i Capretti, proprietari della Ciat. Berlusconi, presente e riconoscibilissimo, diventa Cazzaniga. Enrico Cuccia diventa Roccia. E via dicendo. Sfugge a chi scrive il motivo di tale pseudo-mascheramento, liddove altri personaggi chiave, Craxi in primis, sono indicati in chiaro.

Allo stesso tempo, la presenza di decine se non centinaia di personaggi minori, ciascuno menzionato con dovizia di dettagli anche quando appare una sola volta e ha un ruolo assolutamente secondario rende difficile seguire la trama. A meno di non avere una memoria da elefante, il lettore alla fine fatica a ricordare chi è chi in questa bailamme di nomi.

È un peccato, perché l'idea del libro è interessante. Ma queste debolezze strutturali annoiano profondamente il lettore. Il tono didattico pieno di "senno di poi" (l'autore sa come sarebbe andata a finire, e quindi i dialoghi fra i protagonisti sono carichi di "intuizioni") non contribuisce a risvegliare l'interesse del lettore. Il presente lettore si è ritrovato a domandarsi se davvero i comunisti, quelli veri, fossero così noiosi. Perché se lo erano, non meraviglia che la storia li abbia cancellati...