Chi scrive è sempre stato convinto che il perdono, indispensabile per poter guardare avanti invece che indietro, sia in situazioni personali che in situazioni collettive, può solo aver luogo dopo aver guardato in faccia senza esitazione ciò che è successo, e dopo essersi detti ciò che si sente, senza cercare di "dimenticare". "Dimenticare" (fra virgolette) non funziona per i torti personali, e purtroppo tante sono le famiglie rose dall'interno da innominabili segreti, di cui tutti sanno ma di cui nessuno parla. Le società umane, mutatis mutandis, non sono diverse. E quando una società si è macchiata, collettivamente, di orrori e mostruosità, non si può che cercare di guardare avanti e di andare oltre, ma per farlo davvero di deve guardare in faccia, senza timore, ciò che è successo. In alcuni, rari casi nel mondo ci si è riusciti, e l'esempio forse più noto è quello della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, che, sotto la guida dell'arcivescovo Desmond Tutu, mise di fronte vittime e carnefici dell'apartheid, e fu una tappa fondamentale della transizione sudafricana verso una democrazia che includesse tutti, indipendentemente dal colore della pelle. Ovviamente la Commissione in questione non fu perfetta, né perfetti furono i suoi risultati. È però credo indiscutibile che la transizione sudafricana sia stata pacifica e che quindi, con tutti i suoi limiti, la Commissione sia stata un successo.

Nulla di tutto questo accadde in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Non accadde in Germania, non accadde in Italia, ma non accadde neanche in Francia o in altri paesi occupati dai nazifascisti, dove i collaborazionisti erano tanto parte della società quanto le vittime. Ovviamente ci sono state i processi di Norimberga in Germania (e istituzioni simili in altri paesi), che hanno identificato e punito i responsabili più in alto nella gerarchia del potere. Ma eventi come il nazismo o il fascismo sono stati possibili anche e soprattutto alla partecipazione e al supporto di interi popoli. Vi sono ovviamente stati oppositori, ma un regime, per quanto oppressivo, non può durare anni senza un forte supporto popolare.

Purtroppo a guerra finita, e con lo spauracchio della "minaccia comunista", è stato molto più comodo istallare collettivamente dei nuovi miti fondanti nazionali, in cui il paese e il popolo erano stati vittime di una sparuta minoranza di criminali. E, come nelle famiglie in cui albergano segreti inconfessabili, asti e desideri di rivincite hanno continuato a covare sotto la facciata di positività che ha accompagnato l'Europa del dopoguerra.

Un'Europa che ha indubbiamente creato dei veri miracoli di riconciliazione, come l'Unione Europea. Ma che soffre a tutt'oggi della mancanza di una memoria collettiva di ciò che è successo davvero, di una fase storica che ha coinvolto tutti, da cui nessuno è stato assente, e in cui si era inevitabilmente complici oppure si era (raramente) oppositori attivi. Per chiarezza, chi scrive non si sogna neanche di ergersi a giudice, e anzi ringrazia il cielo di non essere mai stato messo di fronte alla scelta se essere complice o oppositore, ed è ben cosciente che opporsi attivamente ad un regime crudele e senza scrupoli richiede un coraggio non comune. Ma proprio per questo sarebbe stato molto meglio per l'Europa guardare in faccia ciò che era successo, invece di dichiararsi collettivamente, dopo il 1945, antifascisti.

L'autrice del libro qui recensito, Géraldine Schwarz, ha un nome che dice già molto, con un nome di battesimo estremamente francese ed un cognome chiaramente tedesco. È infatti figlia di papà tedesco e mamma francese, entrambi nati nel dopoguerra, ma con dei nonni che avevano vissuto il periodo bellico in prima persona. E l'autrice, attraverso la storia della propria famiglia, esplora il ruolo della memoria, o piuttosto della scelta di dimenticare, nell'Europa del dopoguerra.

I due nonni dell'autrice sono un perfetto argomento di studio: il nonno paterno aveva acquistato una piccola azienda dal proprietario ebreo, che aveva ovviamente necessità, nel 1938, di vendere in fretta, mentre il nonno materno era poliziotto, gendarme, nella collaborazionista repubblica di Vichy. Non vi è alcuna evidenza che né l'uno né l'altro si fossero resi personalmente responsabili di atti di violenza nei confronti di ebrei, e il nonno tedesco non era certamente un nazista convinto. L'autrice lo definisce un "mitlaüfer", un "compagno di cammino", qualcuno che ha nuotato con la corrente, come la maggior parte dei tedeschi durante il nazismo, e degli italiani durante il fascismo. La vulgata di famiglia vedeva anzi il nonno paterno come qualcuno che aveva dato una mano a qualcuno in un momento di difficoltà, acquisendo un'azienda che era in condizioni tutt'altro che floride.

Con grande capacità, e sempre con grande empatia ed evitando di dare giudizi trancianti, l'autrice parte dalla vicenda del nonno per esplorare sia la storia della propria famiglia, sia quella della memoria nell'Europa del dopoguerra, ovviamente in particolare in Germania, ma anche in Francia. L'autrice scrive con grandissima onestà intellettuale, esplorando anche la propria situazione personale di franco-tedesca, i cui genitori si erano incontrati in un'epoca in cui le memorie della guerra erano ancora ben presenti, e le cui rispettive famiglie erano inizialmente ben lungi dall'essere entusiaste di una relazione con qualcuno che veniva da quello che era stato un paese nemico. La stessa autrice ha vissuto da giovane in Francia, e da adulta in Germania, potendo così avere una rara visione d'insieme dell'Europa moderna.

La conclusione del libro è tutt'altro che rassicurante, vedendo ciò che sta succedendo in Germania, dove partiti di estrema destra stanno raccogliendo quantità di voti sempre maggiori alle elezioni, un fenomeno che l'autrice ritiene (a parere di chi scrive correttamente) alla mancanza di una memoria storica che abbia affrontare senza pudori il passato collettivo, senza attribuire tutto a poche figure al vertice di un regime.

È un libro a cui manca il lieto fine, e che proprio per questo è necessario che sia letto e meditato, soprattutto forse da generazioni più giovani che hanno meno conoscenza di una storia che oramai può apparire lontana ma che invece purtroppo rimane di grande attualità in Europa.