Carlo Levi aveva intitolato un suo ben noto libro "Le parole sono pietre", e una persona è in gran parte definita da ciò che dice, o da ciò che scrive. Una persona onesta è qualcuno che "parla chiaro", e qualcuno fidato è qualcuno che "mantiene la propria parola". Poche cose rivelano, in qualsiasi cultura, la classe sociale da cui qualcuno proviene come il suo uso della lingua, della parola, e poche cose sono purtroppo usate come strumento di discriminazione quanto la parola.

Gianrico Carofiglio, nel suo "Breviario di scrittura civile" affronta il tema, antico, ed in Italia attualissimo, dell'uso del linguaggio come strumento di potere. Qualsiasi cittadino italiano, di qualsiasi classe sociale, è stato esposto alla protervia del burocratese, ovvero all'uso di una lingua solo apparentemente colta, in realtà sciatta e arcana, quando astrusa ed incomprensibile, usata come strumento per mettere in soggezione il cittadino. Una lingua che sembra progettata per far sentire chi vi è esposto inferiore, suddito, soggetto ad un potere imperscrutabile ed incomprensibile.

Carofiglio è un magistrato, e sa quindi fin troppo bene quanto l'italiano giudiziario sia inutilmente astruso, e di come le leggi in Italia siano spesso scritte in modo tale da risultare non solo incomprensibili al cittadino comune, ancorché colto, ma anche da prestarti a molteplici interpretazioni. E se per un cittadino che ha avuto la fortuna di studiare la lingua del diritto risulta ostica ed incomprensibile, ci si può solo figurare lo sconforto di chi questa fortuna non l'ha avuta, e che si incontra, o scontra, con la legge senza alcuno degli strumenti culturali necessari a capire di cosa si stia parlando.

Carofiglio ritiene giustamente un dovere civile scrivere con chiarezza e trasparenza, in ogni occasione, ma ovviamente ancor più quando si parla di diritto. Lo ritiene una della basi di una società civile. Nel libro riporta numerosi esempi di testi scritti da giudici e avvocati, così come altri estratti da leggi, che nascondono dietro un gergo apparentemente "professionale" una pochezza di pensiero e una sciattezza redazionale ugugliate solamente dall'oscurità delle parole che tale pochezza e sciattezza veicolano.

Il problema non è ovviamente solamente presente nell'ambito legale, e anzi è particolarmente presente presso il ceto politico. Chi scrive è peraltro iper-sensibile alla sciattezza della maggior parte della stampa italiana, i cui testi sono redatti con estrema povertà di vocabolario, infiorato però da termini apparentemente "rigorosi" usati in gran parte a sproposito, col solo scopo della ricerca dell'effetto più o meno spettacolare.

Fa quindi benissimo Carofiglio a scrivere questo breve ancorché donchisciottesco testo, che probabilmente non avrà alcun impatto, ma non per questo non merita di esser letto.

Il contrasto fra gli esempi citati da Carofiglio a mo' di collezione di orrori e la prosa asciutta e sintetica, diretta e chiara usata da Leonardo Sciascia nei propri rari ma significativi interventi parlamentari non potrebbe essere più netto. Andrea Camilleri ha avuto il merito di curare una breve raccolta delle interpellanze parlamentari che Sciascia fece durante il proprio mandato parlamentare, dopo essere stato eletto nelle liste del Partito Radicale. Per la maggior parte si tratta di interventi su questioni relative ai diritti civili, effettuati durante i cosiddetti "anni di piombo". Alcune (e forse sono quelle più "intense") sono legate alla tuttora oscura vicenda del rapimento e uccisione di Aldo Moro, su cui il Parlamento creò una commissione di inchiesta di cui Sciascia fu membro. Il libro riporta anche la sua breve relazione di minoranza a tal proposito.

Sciascia non usa mai una parola di troppo, non esitando ad usare termini forti e diretti quando ritiene che la situazione lo richieda, e non nascondendosi mai dietro più o meno eleganti metafore per dire ciò che pensa. Leggendo i suoi interventi vien da pensare alla prescrizione evangelica, "sia il vostro parlare sì al sì, no al no". Gli scritti di Sciascia furono un elemento "formante" dell'adolescenza di chi scrive, che ne rimane un ammiratore. Leggere oggi, a distanza di qualche decennio le parole che lo stesso Sciascia aveva pronunciato in parlamento su temi importanti quali i diritti del cittadino nei momenti in cui lo stato è sotto attacco conferma come Sciascia sia stato un grande intellettuale, la cui formazione illuminista traspare in ogni intervento.

Camilleri ha anche aggiunto, in appendice, le risposte del governo alle interpellanze poste da Sciascia in Parlamento. La pochezza e l'ipocrisia che trasudano dalle frasi barocche e vuote usate dai rappresentanti del governo per non rispondere alla domande che Sciascia pone, chiare ed inequivocabili, sono tristi e scoraggianti. Una pochezza ed un'ipocrisia a cui facevano da contraltare, peraltro, la tristezza e la povertà linguistica della cosidetta "sinistra extraparlamentare" dell'epoca, da quella di movimenti legali come Lotta Continua (che poi si presentò alle elezioni e vide propri rappresentanti eletti in Parlamento) fino alle Brigate Rosse, i cui comunicati sono di una pochezza linguistica tale da far sembrare impossibile che chi li scrivesse fosse in grado di ragionare in maniera logica e lineare (incapacità peraltro, temo, reale e dimostrata dai fatti).

In qualche modo, liddove il saggio di Carofiglio espone la "teoria" dell'uso corretto della lingua, la raccolta di interventi di Sciascia curata da Camilleri è in qualche modo un'impeccabile "antologia di esempi" (in positivo quelli di Sciascia, in negativo quelli del governo) che mette in pratica ciò che Carofiglio propone. Leggerli insieme (uno dopo l'altro) da fiducia nel fatto che non siamo condannati a parlare male e a pensar male -- frase che ovviamente non può che ricordare la celebre (almeno per la generazione del sottoscritto!) scena di Nanni Moretti che urla alla giornalista che cerca di intervistarlo mettendogli in bocca una serie di frasi fatte e vuote, "Io non parlò così! Io non penso così!"